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- Progetti per invadere l'universo -

 

Oggi per lasciare la Terra e muoverci nello spazio abbiamo solo un tipo di motore: quello dei razzi, che brucia idrogeno. Un’alternativa è data dalla propulsione elettrica a ioni, ancora poco usata.
Questi sistemi vanno abbastanza bene per missioni in orbita terrestre, oppure per mandare sonde a spasso per il Sistema solare, ma se vogliamo andare oltre ci accorgiamo che serve qualcosa di nuovo. Gli scienziati delle agenzie spaziali di tutto il mondo stanno già progettando i nuovi propulsori, che un giorno porteranno l’uomo in giro per l’universo. Per ora sono idee futuribili, alcune più concrete, altre più fantasiose, ma si basano tutte su principi fisici. Non sono sogni partoriti da menti geniali, ma poco pratiche; sono anticipazioni di quello che sarà. Molto probabilmente.

 

Propulsione ad antimateria

Nei primi anni Cinquanta, l’ingegnere aeronautico tedesco Eugene Sänger ipotizzò di sfruttare l’energia prodotta durante i processi di annichilazione tra particelle e antiparticelle per costruire un nuovo tipo di motori spaziali, efficientissimi.
Oggi, dopo mezzo secolo, siamo lontani dal realizzarli, ma lo sviluppo tecnologico è così rapido che potrebbe stravolgere questa situazione in pochi decenni.
Esistono diversi gruppi di studio che portano avanti altrettanti progetti, i più importanti sono quelli condotti al Marshall Space Flight Center (NASA), alla Pennsylvania State University e da Robert Forward (morto lo scorso anno) presso gli Hughes Research Laboratories.
Proprio a Forward dobbiamo la versione concettualmente più semplice di un propulsore ad antimateria. Il carburante da utilizzare è l’antiidrogeno, trasportato in un “serbatoio” adatto. Attualmente si suppone di utilizzare come serbatoio la cosiddetta trappola di Penning: un contenitore che intrappola e trattiene gli antiatomi grazie a un campo elettrico e uno magnetico sufficientemente intensi. Dal serbatoio parte un lunghissimo ugello magnetico (circa due kilometri) generato da un solenoide molto potente.
Esistono sei diverse configurazioni di propulsori ad antimateria. Per missioni interstellari, cioè quelle dirette verso altre stelle, il più adatto sembra essere il tipo “puro”. L’antiidrogeno che esce dal serbatoio è portato a contatto con un flusso di idrogeno, col quale avviene la reazione di annichilazione. Dal processo si generano delle particelle, i pioni, cariche e neutre. I pioni neutri decadono quasi istantaneamente in raggi gamma, mentre i pioni carichi decadono in muoni e neutrini. I muoni proseguono nell’ugello magnetico e quindi decadono in elettroni, positroni e ulteriori neutrini. In tutto le particelle percorrono circa due kilometri. Il flusso di queste particelle altamente energetiche genera la spinta che fa muovere l’astronave (di seguito un disegno di un possibile razzo ad antimateria).


Gli altri tipi di motore utilizzano l’annichilazione di materia e antimateria per innescare reazioni di fissione e di fusione nucleare. La spinta, come nel caso precedente, è data dall’espulsione ad altissima velocità delle particelle che si producono durante tali reazioni.
I sistemi ad antimateria hanno prestazioni altissime, dal punto di vista teorico le migliori possibili. Ma la quantità di antimateria di cui hanno bisogno per ora li rende irrealizzabili, sia perché la produzione mondiale di antimateria è assolutamente insufficiente, sia perché i costi di produzione sono estremamente elevati: intorno ai 30 miliardi di euro per ogni grammo.

 

Ramjet interstellare a fusione

Fece la sua prima apparizione nel 1960, ideato dal fisico americano Robert W. Bussard. L’idea di base consiste nello sfruttare come propellente principale, durante la maggior parte del viaggio, l’idrogeno libero presente nello spazio interstellare, così da ridurre notevolmente la massa di propellente trasportato da Terra.
Il ramjet è composto da una gigantesca struttura a imbuto (di un kilometro circa di raggio) che raccoglie ioni o atomi di idrogeno grazie a un intenso campo elettrico o magnetico. Questo viene generato da superconduttori nella parte frontale dell’astronave. L’idrogeno raccolto viene poi convogliato verso la camera di combustione dove avvengono i processi di fusione nucleare.
Dalla camera di combustione sono poi espulsi i gas di scarico che creano la spinta necessaria (di seguito un disegno di un possibile razzo di Bussard).


Un tale sistema presenta lo stesso principale svantaggio dei ramjet aeronautici, i quali possono entrare in funzione solo a velocità molto elevate per assicurare la necessaria pressione dell’aria che entra nella camera di combustione. Il ramjet spaziale deve avere quindi un propulsore secondario per raggiungere la velocità necessaria a catturare la quantità sufficiente di idrogeno. Sulla Terra “basta” superare i 3000 km/h, nel cosmo servono invece 60 milioni di km/h.
Esistono innumerevoli versioni migliorative del ramjet interstellare, per esempio il RAIR (Ram-Augmented Interstellar Rocket) che sfrutta un processo di fusione nucleare per riscaldare e accelerare il flusso di protoni entrante.

 

Propulsione ad energia di punto-zero

Nel 1948 il fisico olandese Hendrik Casimir (foto qui di seguito), con un esperimento effettuato nei laboratori della Philips a Eindhoven (Paesi Bassi), scoprì l’effetto fisico che oggi porta il suo nome.


Per capire in cosa consista dobbiamo prima di tutto accettare l’idea che il vuoto è in realtà “pieno” di campi elettromagnetici di ogni tipo, il cui insieme è chiamato campo di punto-zero o ZPF (Zero Point Field). L’idea di Casimir è quella di assorbire energia dal vuoto, sfruttando proprio il campo di punto-zero.
In una specie di serbatoio, Casimir creò il vuoto assoluto eliminando qualunque forma di materia, e lo portò a una temperatura il più vicino possibile allo zero assoluto (0 K = –273,15 °C). Al suo interno collocò poi una di fronte all’altra una coppia di piastre conduttrici. Secondo la fisica classica niente sarebbe dovuto cambiare, e Casimir non avrebbe dovuto riscontrare nessun tipo di fenomeno. Ma non fu così. Le due piastre conduttrici si attrassero reciprocamente e lo stesso Casimir ne capì il motivo prima di tutti.
Prima di introdurre le due piastre, il serbatoio è “pieno” solo di onde elettromagnetiche, di tutte le lunghezze d’onda. La successiva introduzione delle piastre modifica però il campo elettromagnetico (lo ZPF). Tra le due piastre rimangono solo le onde stazionarie (in verde nel disegno), cioè di lunghezza d’onda pari a un sottomultiplo della distanza che c’è tra le piastre stesse. Le onde sono bloccate dalle piastre alle estremità, proprio come le corde delle chitarre sono bloccate agli estremi e vibrano tra questi. Al di fuori del volume compreso tra le due piastre, invece, le onde (in rosso) sono “libere”, cioè non hanno vincoli.
Tra le piastre, quindi, si hanno infinite onde, ma solo di tipo stazionario (che rappresentano una porzione di tutte le onde possibili) e al di fuori infinite onde di qualsiasi tipo. Tale condizione fa sì che la pressione esercitata dalle onde elettromagnetiche esterne alle piastre (la pressione di radiazione) sia maggiore rispetto a quella interna, per cui le piastre tendono ad avvicinarsi, come se tra loro esistesse una forza attrattiva.
Cambiando le condizioni dell’esperimento, per esempio usando piastre conduttrici di forma diversa ( sferica, cilindrica...) si ottengono forze diverse, di repulsione o attrazione a seconda dei casi.
Quindi, nell’universo, che è praticamente vuoto, è teoricamente possibile estrarre energia “gratuita” e in quantità inesauribili dal campo di punto-zero. Si eliminerebbe così il problema del trasporto di combustibile da Terra, che è necessariamente una quantità limitata. Purtroppo, però, la tecnologia che potrebbe concretamente permetterci di sfruttare questa incredibile fonte di energia è ancora molto lontana dall’essere realizzata.

 

Propulsione elettrica

Sono tre i tipi di propulsori “elettrici” spaziali più studiati e promettenti per il futuro: propulsori a ioni, propulsori ad effetto Hall e propulsori magneto-plasma-dinamici (MPD).

 

Propulsori a ioni

Già oggi esistono sonde che impiegano propulsori a ioni, come la Deep Space 1, che ha compiuto la sua missione tra il 1998 e il 2001 con un motore costruito dalla NASA e dalla Hughes e chiamato NSTAR.
Il propellente utilizzato è il gas nobile xenon, che genera la spinta necessaria al volo fuoriuscendo dal motore sotto forma di ioni. Gli ioni sono generati all’interno del motore (per esempio per bombardamento elettronico) e sono poi accelerati grazie alla differenza di potenziale elettrico imposta tra delle griglie che essi attraversano. Ma per produrre gli ioni positivi, bisogna accumulare elettroni, cioè cariche negative. Così, per evitare che la navicella si carichi elettricamente, insieme agli ioni viene espulso anche un fascio di elettroni. Nello spazio, poi, elettroni e ioni si neutralizzano a vicenda (di seguito la foto del motore NSTAR durante un test di laboratorio).


La spinta fornita da questi propulsori è estremamente bassa, per cui è impensabile utilizzarli in missioni interstellari. Raggiungere il sistema di Alpha Centauri (distante da noi circa 4,29 anni luce, quasi 41.000 miliardi di kilometri), richiederebbe approssimativamente 35.000 anni!
Invece, per missioni all’interno del Sistema solare i motori a ioni sono particolarmente adatti, anche per la loro lunga vita operativa: possono funzionare per uno o due anni di seguito, come ha dimostrato la sonda Deep Space 1.
Un progetto simile a quello americano è stato portato avanti anche dall’Agenzia Spaziale Europea, col nome di ESA-XX, ma attualmente è fermo. Per l’Italia ha partecipato la Proel/Laben.

 

Propulsori ad effetto Hall

Anche in questi motori la spinta è fornita da un flusso di ioni di xenon. Gli ioni sono ottenuti dalla collisione di atomi con elettroni, i quali formano una corrente che si muove secondo circonferenze attorno all’asse principale del motore, detta “di drift”. La corrente nasce per effetto Hall: è generata da un campo magnetico radiale (cioè che va dall’asse del motore verso l’esterno di esso, come i raggi delle ruote di una bicicletta) e da un campo elettrico lungo l’asse principale. Inoltre, lo stesso campo elettrico accelera gli ioni creati spingendoli verso l’ugello. Anche in questo caso gli ioni sono neutralizzati al di fuori della navicella da un fascio di elettroni. Come nel caso precedente, questi propulsori (di ideazione russa) forniscono dei valori di spinta estremamente bassi, in più “consumano” troppo propellente, per cui non sono adatti a missioni interstellari (di seguito una foto di un propulsore).

 

Propulsori magneto-plasma-dinamici (MPD)

A differenza che nei propulsori a ioni e a effetto Hall, la spinta è data da un flusso di plasma, cioè un gas quasi neutro ad altissima temperatura, principalmente di argon o litio. Il plasma non è influenzato da forze elettrostatiche, perciò per accelerarlo si utilizza un campo magnetico abbinato a uno elettrico (di seguito un disegno di un possibile propulsore).


Si tratta di motori decisamente più complessi dei precedenti, ed è per questo che non esistono ancora progetti molto avanzati a riguardo.
Le prestazioni teoriche sono migliori di quelle degli altri due sistemi elettrici, ma comunque restano insufficienti per missioni interstellari.

 

Propulsione nucleare a radiazione di corpo nero

Ideata dal premio Nobel Carlo Rubbia (foto qui di seguito), oggi la propulsione nucleare a radiazione di corpo nero è il sistema più promettente.

 


In 15-20 anni ci permetterà di ridurre drasticamente i consumi e i tempi di volo, avvicinando la possibilità di raggiungere altre stelle.
Il propulsore, che si ispira alle vele solari, è costituito da un corpo che emette radiazioni elettromagnetiche in tutte le lunghezze d’onda, e che i fisici chiamano radiazione di corpo nero. Queste radiazioni investono uno schermo, che fa il ruolo della vela.
Il corpo che emette radiazioni, un blocco di uranio, è riscaldato da una reazione di fissione nucleare, la quale permette di generare un elevatissimo flusso di radiazioni con piccole quantità di combustibile.
A parità di superficie, rispetto a una vela solare “tradizionale”, che utilizza il flusso di particelle emesse dal Sole, si hanno quindi due sostanziali vantaggi: il corpo che emette le radiazioni è a bordo della navicella, quindi il flusso di radiazioni non diminuisce all’aumentare della distanza percorsa; inoltre il valore di tale flusso è decisamente maggiore rispetto a quello che arriva sulla Terra dal Sole, con la conseguenza di avere una spinta notevolmente più elevata.
Il flusso di radiazioni emesso è proporzionale alla quarta potenza della temperatura del corpo. Ma non si può portare l’uranio oltre i 3500 °C, altrimenti questo elemento modificherebbe la sua struttura fisica e il motore non potrebbe più funzionare correttamente.

 

Le possibilità che ci regala la Relatività

La teoria di Einstein ha suggerito agli scienziati “scorciatoie” per viaggiare nello spazio più rapidamente.

 

Tunnel spazio-temporali (wormholes)

Per la Relatività generale lo spazio presenta delle curvature. Se immaginiamo uno spazio bidimensionale curvo, cioè come un foglio di carta curvato a U, possiamo pensare che un tunnel spazio-temporale sia come un “condotto” che unisce direttamente due punti qualsiasi del foglio attraverso una dimensione aggiuntiva. Esattamente come un tunnel stradale unisce due punti della superficie terrestre attraversando la “terza dimensione”, cioè quella che entra nella Terra. Il problema principale è creare tali tunnel e mantenerli aperti mentre vengono attraversati. Se si riuscisse in quest’impresa, precorreremmo distanze enormi, anche parecchi anni luce, in tempi brevissimi, anche solo pochi minuti.

 

Sistema a spazio-deformante di Alcubierre (Alcubierre’s warp drive)

Il sistema è stato escogitato negli anni ‘90 da un giovanissimo fisico messicano, Miguel Alcubierre. Consiste in una navicella che “deforma” lo spazio, cosicché questo si riduca davanti e si espanda dietro di essa.
Ciò significa che la navicella riuscirebbe a spostare il punto da cui essa è partita anni luce più indietro e contemporaneamente avvicinerebbe il punto di arrivo.
La navicella farebbe scorrere sotto di sé il “lenzuolo” che rappresenta l’universo, abbreviando notevolmente i tempi di volo. Potrebbe persino rimanere immobile nella sua posizione iniziale muovendo lo spazio attorno a sé.
Ciò che non è chiaro è l’effetto che la deformazione dello spazio avrebbe sulla materia interstellare (asteroidi, meteoroidi, ecc.).
Infatti, nella parte anteriore la contrazione dello spazio avverrebbe come un collasso e nella parte posteriore la dilatazione avverrebbe come una rapida espansione dell’universo, simile a un piccolo Big Bang, dalle conseguenze imprevedibili.
Esistono, inoltre, molti altri problemi tecnici ancora irrisolti che rendono questa possibilità difficilmente realizzabile.

 

Tubi di Krasnikov

Supponiamo di possedere un’astronave che riesca a viaggiare a una velocità prossima a quella della luce. Lungo la sua scia si creerà un tubo di Krasnikov, un vero e proprio tunnel nel tempo, scoperto dallo scienziato russo Sergej Krasnikov nel 1997 risolvendo le equazioni di Einstein. Il tubo di Krasnikov sarà utilizzato per il ritorno. Il viaggio di andata è un “classico” viaggio a velocità inferiore a quella della luce, seppure elevatissima; invece il viaggio di ritorno avverrà in un tempo inferiore (addirittura negativo!) a quello dell’andata.
Uno svantaggio di questo sistema è che per il viaggio di andata, in ogni caso, si deve possedere un’astronave sufficientemente veloce per impiegare un tempo di volo molto basso, altrimenti la scorciatoia temporale utilizzabile per il ritorno sarebbe insufficiente a rendere la missione realizzabile in tempi “umani”.

 

Sistemi ad antigravità

La possibilità di creare dispositivi che riducano o annullino l’effetto della gravità su un qualsiasi corpo venne annunciata nel 1992 dal fisico russo Evgeny Podkletnov, il quale riuscì a diminuire sperimentalmente il peso di un oggetto. Podkletnov non fornì mai prove certe del suo esperimento e per questo il suo annuncio non venne considerato fondato. Negli ultimi anni, però, la NASA sta effettuando test analoghi a quelli di Podkletnov mirati a dimostrare la possibilità di creare dispositivi ad antigravità, anche se per adesso sembra con risultati negativi.
Un dispositivo per generare gli effetti antigravità come quello ideato dallo scienziato russo può essere un sottile anello circolare in materiale superconduttore. Esso deve essere raffreddato a temperature estremamente basse (intorno a -230 °C) e fatto levitare grazie a un campo magnetico. Inoltre, tramite un campo elettrico deve essere messo in rotazione attorno al proprio asse. Se, quindi, posizioniamo un corpo sopra questo dispositivo esso mostrerà un peso minore di quello che ha sulla Terra. Si verifica cioè una perdita di peso, secondo Podkletnov, grazie a una schermatura dal campo gravitazionale.
Un sistema ad antigravità potrebbe essere utilizzato per “ridurre” il peso di un’astronave interstellare, la quale richiederebbe di conseguenza una spinta minore per raggiungere la destinazione, e quindi una minore quantità di combustibile. Le possibilità di voli interstellari aumenterebbero notevolmente dato che si potrebbero utilizzare sistemi propulsivi non necessariamente fantascientifici.

 

Febbraio 2003

 

Luca Derosa

 

Articolo pubblicato dall'ing. Luca Derosa, riprodotto e modificato (nelle immagini) previa autorizzazione di Newton.
Il riferimento bibliografico dell'articolo originale è:

Derosa L., "Progetti per invadere l'universo ", Newton, febbraio 2003, v. 2, 58-67

 

 
     

 

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