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Associazione Culturale Micene

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- Il partigiano -

 

3- Giovinezza, giovinezza

Il piccolo paese era ormai tranquillo e rappacificato: terminate le liti, le sterili discussioni politiche, le risse. Tutto era tornato normale; tutti avevano un proprio ruolo nelle numerose organizzazioni che il potere fascista aveva instaurato: Balilla, Giovani Italiani, Donne Italiane, Fasci di Combattimento. Le due maggiori istituzioni di un paese, la Scuola e l’Esercito, erano state indottrinate per bene e i riottosi cacciati a sostenere il pesante ruolo di “sovversivi” ben controllati dai Regi Carabinieri. Ovviamente non c’era più l’annoso impiccio della politica perché la testa che pensava per tutti era una sola e il Podestà, l’attuale Sindaco, veniva nominato direttamente dal Prefetto e scelto fra i maggiorenti del luogo.

Un posto tranquillo, no? Che rimaneva da fare? Non v’era nulla a cui pensare se non a… vivere. Ma vivere rimaneva sempre duro per Lidia che doveva mandare avanti la tribù e, forse per passatempo o per passione, si mise a “leggere” le carte. Molte donnette, mentre suo padre dormiva, venivano di nascosto a trovarla e lei non solo prediceva, ma anche raccontava ed ascoltava. In breve fu un concentrato d’informazioni che spandeva in giro per il paese ad arte: il suo spettegolare ravvivava un po’ l’ambiente facendo litigare famiglie che per anni erano vissute quiete e tranquille. Inoltre, il viso di una magrezza tirata dalla fame, le infossava gli occhi e le evidenziava curiosamente un naso aquilino. Ben presto si fece la fama di “megera” e quando passava per il paese, la gente torceva il capo per non prendere il malocchio. Aveva lavorato molto, è vero, per la famiglia al punto da rinunciare alla sua vita privata, alle sue avventure amorose. L’unica cosa che amava era il ballo. La domenica, di pomeriggio, non tutte, insieme ad un’amica prendevano la bici e andavano “nella grande città” (cioè Ciriè) dove si concedevano questo peccaminoso piacere che a Nole nessuno avrebbe mai saputo. Forse fu il fatto di averli cresciuti, curati, lavati, vestiti che, appena si presentava all’orizzonte la minima possibilità di una relazione di un suo fratello con una donna, lei partiva e cercava di eliminare (con la sua malalingua) questa seppur remota possibilità. In effetti aveva sviluppato un affetto morboso per tutti i fratelli e, quando si sposarono, un odio fiero ed estremo verso tutte le cognate. I suoi fratelli erano tutti dei Santi Martiri che avevano maritato delle “poco di buono”, così si esprimeva e si sfogava per il paese e con le amiche.

Rosina, esile fantasma, era una bimba che mi raccontarono bellissima, intelligente e dolce.

Seguiva Lidia come un’ombra e, timidamente, vi rimase sempre. Crebbe debole e malaticcia proprio come una pianta che stenta a crescere all’ombra prepotente di un’altra. Studiava, era intelligente, faceva persino le “scuole tecniche”. Ma una brutta polmonite la portò via da questo mondo troppo brutto e rozzo per lei: aveva solo 14 anni. ”Funere mersit acerbo”.

Una dopo l’altra, come cadono le foglie in autunno, iniziarono ad arrivare le cartoline-precetto per il servizio militare a disturbare la pace del paesello. Franco fu mandato in fanteria e poi fu destinato, addirittura, a Pinerolo nella Cavalleria. Ma un vero cavallo non lo montò mai: si limitava a mantenerli puliti e lustri per le parate militari. Tutto sommato, una “naja” comoda. Armando, invece, fu dichiarato rivedibile per gracilità costituzionale ed insufficienza toracica. Alla seconda visita fu destinato ai “servizi sedentari” e fu spedito all’Ufficio Leva di Novara, detto anche “ufficio degli imboscati o dei figli di papà”. I suoi colleghi erano il fior-fiore della borghesia non solo locale e disponevano sempre di molto (per quel tempo) denaro che ricevevano da casa, mentre mio padre da casa non riceveva nulla ma, anzi, doveva anche inviare, fra la disperazione di mia zia Lidia, quel poco che gli davano.

Era spaesato e umiliato lui, unico poveraccio, in un ambiente di ricchi e, quando erano in libera uscita accampava sempre mille scuse per non andare all’opera, al cinematografo, a vedere una partita di calcio, a partecipare ad una sagra paesana lì vicino. Ma la verità era che “era al verde” e per nasconderlo diceva che proprio quella sera aveva (che so?) mal di testa, un appuntamento con una bellezza locale, ecc.ecc. Quando i suoi amici erano usciti lui faceva un giro della città a piedi, dando calci a tutto il mondo e alla sua miseria, poi tornava in caserma e nella sua branda e piangeva, scriveva lettere a casa disperate e, la maggior parte del tempo, la dedicava a sognare ad occhi aperti che cosa avrebbe fatto se avesse vinto alla Sisal finché non arrivava il sonno consolatore. Avrebbe pensato il giorno dopo in Ufficio ad inventare la sua serata amorosa con la bellezza locale, quasi sempre diversa ogni volta. Del resto i suoi colleghi non avevano troppe difficoltà a “bersela” perché mio padre era effettivamente un bell’uomo.

E all’improvviso scoppiò il fulmine, il temporale, la tempesta, la “pazzia”: mio padre chiese al Colonnello, suo Capoufficio, di essere inviato come volontario in Russia!!!!

Per prima cosa lo fecero sottoporre ad una visita psichiatrica ma, visto che lo trovarono sano di mente, non poterono farci niente e lo iscrissero nelle tristi liste dell’ARMIR (i volontari italiani per la guerra in Russia) accanto al fedele alleato germanico.

Comunicò egli stesso la sua decisione alla famiglia per posta ed è inutile dire che a casa Borla si scatenò l’inferno. Tutti i giorni gli giungevano missive che lo scongiuravano di non partire prospettandogli il pericolo della guerra “vera” in un territorio ostile torrido d’estate e polare d’inverno, la crudeltà dei comunisti, la famiglia da mantenere, ecc.

Gli chiesi mille e mille volte il perché di questa insana decisione ma lui fu sempre evasivo: “la voglia di girare il mondo”, diceva; “Vedere se era vero che i comunisti mangiavano i bambini” e sorrideva a me che inorridivo; ”Smetterla di fare la figura del povero cristo tra i figli di papà”; “provare a me stesso e agli altri che ero un uomo vero, anche se rivedibile” aggiungeva…

Tutte scuse o tutte verità?

Mai lo seppi, ma una cosa fu certa:non erano motivi ideologici. Mio padre era più un soldato che un fascista e proprio in quel tempo andava maturando in lui una visione critica del regime fascista e un odio feroce (come suo padre) contro il fedele alleato germanico.

Scuse o verità che fossero partì su di un carro bestiame, destinazione Ucraina, in una già nebbiosa mattina di settembre.

 

4- ARMIR

Il convoglio, composto da carri bestiame che trasportava una gloriosa parte dell’ARMIR, giunse a Kharhov, prima città già liberata dai “fedeli alleati germanici”, in un silenzio di tomba.

Solo appena 200 m più fuori si assiepavano sui due lati ombrosi del viale principale tutto quello che doveva essere rimasto della cittadinanza muta e stracciata di Kharhov. “I fedeli alleati germanici”, infatti, erano già passati di li e l’avevano “liberata” dagli infidi comunisti. Non gridavano né insulti, né improperi: erano dignitosi, questo sì e dicevano: “Italijenskj, pacimù sudà? Italiani perché siete qua? La vostra patria è lontana: circa 3.000 km. Italijenskj pacimù sudà? Mussolini?… Nichkarasciò… Cosa non buona”. Avevano, nel loro esprimersi, una semplicità disarmante, che imbarazzava, che forzava le deboli menti della potente “ARMIR” a sentirsi dei mostri invasori: coloro che correvano, insomma, sempre in aiuto dei vincitori…

Se la gente ucraina poteva capire di essere invasa dai maledetti tedeschi, portatori di morte, fame e sterminio, non comprendeva, invece, come mai al cui seguito arrivassero (come indesiderati avvolto) i soldati dall’ Italia, paese del sole, del canto e della bella musica. A tutto eravamo nati, meno che a fare le belve umane.

E la differenza fra i due eserciti si vide subito…

Per andare in libera uscita agli italiani bastava legarsi bene le pezze da piedi e le scarpe di cartone, ai tedeschi no. Loro dovevano avere il fazzoletto bianco ben piegato e stirato e un limone di Sicilia che dava vitamine nel freddo inverno russo. I tedeschi avevano i limoni, gli italiani no e i loro denti cadevano a causa del freddo e della piorrea, malattia provocata anche dalla carenza di vitamina C.

Cose meravigliose e orribili successero in quegli anni in Ucraina e in Bielorussia.

Durante l’inverno (30 °C sottozero) gli italiani andavano educatamente a bussare alle porte delle confortevoli “izsbe” russe per avere un riparo dal gelo, quasi scusandosi di essere degli occupanti e adattandosi a dormire anche sul duro pavimento, i tedeschi sfondavano la porta a calci, cacciavano via a urla e spintonate vecchie e bambini e falciavano a colpi di Mauser i più riottosi.

Questo comportamento fece, di bocca in bocca, il giro di tutti i villaggi ucraini.

E se i due eserciti arrivavano contemporaneamente, erano gli stessi ucraini a vociare e a gesticolare per ospitare i soldati italiani per tutte le notti necessarie. E furono molti, fra i quali mio padre, salvati dai russi stessi, che svegliandoli in piena notte dicevano loro: ”Italijenskj, cickhai bista, bista… Italiani scappate in fretta: i partigiani sovietici stanno arrivando”. E il mattino dopo si sarebbero potuti vedere, dall’alto, formiche di soldati italiani scappare e rivoli di sangue uscire dai colli dei tedeschi beatamente sgozzati nel sonno dai partigiani sovietici”.

Ma questa non fu la sola cosa che fece odiare i nazisti a mio padre. La tattica dei capi militari russi era stata quasi identica a quella contro Napoleone: i tedeschi arrivarono anche loro a 40 km da Mosca e poi… e poi… il Generale Inverno, i Partigiani Russi, l’Armata Rossa fecero il resto. E così iniziò il misero fallimento dell’“Operazione Barbarossa” e la Germania stessa rischiava, cosa che poi avvenne, di essere invasa dall’est dall’ Armata Rossa che, sotto lo sforzo assai discusso e controverso di Stalin, si era rivelato il primo esercito di terra nel mondo.

Ma non finirono certo le atrocità e il sangue sparso inutilmente. Certamente i nazisti sapevano che, con la disfatta sul fronte orientale, era iniziata la loro fine e che i “comunisti” sarebbero presto giunti a sostituire la croce uncinata con la bandiera rossa sul Reichstag.

Come una belva ferita a morte, i tedeschi divennero ancora più feroci e si lasciarano andare ad atti contro l’umanità atroci. Appena arrivati in un villaggio strappavano dal seno delle madri i lattanti. Li accatastavano sul terreno ghiacciato e poi, uno alla volta li gettavano in aria per falciarli meglio col loro Mauser. Immaginatevi la disperazioni di quelle povere madri, quando fu loro permesso di raccogliere e di ricomporre i cadaverini straziati dei loro bimbi. Oppure si assicuravano che tutti gli abitanti di un’“izsba” fossero dentro, inchiodavano la porta con assi di legno, cospargevano la capanna con benzina, vi appiccavano il fuoco e falciavano con la mitragliatrice tutti quelli che riuscivano ad uscirne vivi. Un macabro tiro al piattello insomma, per il quale nessuna Norimberga sarà mai sufficiente.

Anche nel campo italiano, però, non mancarono episodi poco “edificanti”: soldati lasciati a terra a calci sulle mani dai commilitoni su quei pochi camions che, nel gelido inverno russo, erano riusciti a partire, feriti gravi finiti con un un colpo di pistola alla testa per non portarsi dietro un peso ormai “morto”. Ma non si infierì mai sulla popolazione inerme, questo orribile privilegio fu lasciato ai soldati comuni della Wehrmacht, ai soldati comuni, badate, e non alle Jene delle SS o della Gestapo.

Ma ci furono anche sprazzi di sole in questo inferno. E in una tarda primavera, quando ormai l’ARMIR e i tedeschi in ritirata, giunsero presso il confine rumeno conquistato dai fascisti di quel luogo. I tedeschi, per sancire la pace e l’amicizia fra i popoli germanico ed ucraino, decisero di organizzare un incontro di calcio. Ovviamente le forze erano impari, ma gli ucraini decisero di accettare lo stesso. La partita fu entusiasmante e l’arbitro non certo neutrale; si giocò quasi tutta nell’area ucraina ma, nonostante un rigore gentilmente offerto dall’arbitro, i tedeschi non vinsero e finì in parità: 0-0.

Il portiera dell’Ucraina parò di tutto: tira da un metro, calci di punizioni e calci in faccia, calci d’angolo e tiri dal limite dell’area: ma quei bastardi non li avrebbe mai fatti segnare: sarebbe anche stato disposto a dare la vita per parare un probabile gol.

Alla fine della partita il portiere fu portato in trionfo, mentre i tedeschi lo guardavano sospettosi mentre ringraziava il popolo russo: che fosse un rumeno o un alleato ungherese?

Il giorno dopo, al campo italiano, si presentarono al comandante due agenti della Gestapo con un ordine di cattura per Il soldato scelto Armando Borla per la figura barbina che aveva fatto loro fare nella partita. Il capo d’imputazione era quello di tradimento: aveva fatto bene il comandante del campo italiano a consiliare mio padre di nascondersi fino alla partenza per l’Italia in qualche izsba russa: li sarebbe stato più al sicuro e non fucilato sul posto dai nazisti ancora inviperiti. L’avrebbe avvisato lui quando le acque si sarebbero calmate:ma solo il giorno prima della partenza.

 

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